Parrocchia San Giacomo Apostolo - Basilica B.V. della Navicella - Chioggia


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Storia della Chiesa

a cura di Alberto Naccari

L’EDIFICIO RELIGIOSO ANTICO

Edificio Attuale - Altare Maggiore - Aristide Naccari

Le sparute informazioni relative all’antico edificio ci vengono fornite da alcuni dei personaggi più in vista della storia cittadina. Si tratta dell’ingegnere idraulico Cristoforo Sabbadino (1481-1560), proto alle acque della severissima magistratura veneziana, dello storico Pietro Morari (fine ‘500-1652), futuro Vescovo di Capodistria, dello storico e disegnatore fiammingo Giovanni Grevembroch (sec. XVII), a servizio del senatore amplissimo Pietro Gradenigo, zio del Vescovo Agostino Gradenigo, che nel 1767 utilizzò tre suoi disegni per illustrare la sua “Serie de Podestà di Chiozza”, del professor Aristide Naccari (1848-1914), infaticabile indagatore nella storia dell’arte cittadina ed attento testimone del suo tempo. Grazie alle loro ricerche ed ai rilievi ed ai disegni prodotti siamo fortunatamente in grado di ricostruire, seppure con il criterio della verosimiglianza, l’aspetto esterno ed interno dell’antico edificio sacro intitolato al culto di San Giacomo Apostolo e, dal 1806, anche a quello della “Madonna della Navicella”, culminato nel 1859 con la sua incoronazione e nel 1906 con l’attribuzione all’edificio del titolo di basilica pontificia minore da parte di S.S. Pio X.

L’origine dell’antica chiesa vicariale di San Giacomo Apostolo, retta dal Capitolo della Cattedrale fino all’istituzione della Parrocchia, avvenuta mediante il decreto napoleonico dell’8 febbraio 1809, va ricercata presumibilmente nell’XI secolo, quando la Città, dopo le distruzioni subite ad opera dei Franchi (810) e degli Ungari (900), iniziava a creare la propria fortuna economica grazie alla produzione ed al commercio del sale. L’edificio, ammiccante allo stile basilicale così diffuso nell’Italia bizantina, soprattutto nella vicina Pomposa e Ravenna, presentava una pianta rettangolare con l’abside ad est, di fronte al Canal Vena, e la facciata sulla Piazza, l’antica “Plathea”, dalla quale si accedeva mediante tre porte sormontate da un portico.

L’interno, piuttosto basso, illuminato da finestroni laterali, si articolava in tre navate, prodotte da due sequenza di colonne realizzate in mattoni, che mediante archi semicircolari sorreggevano il corpo centrale della fabbrica. La navata centrale, che si innalzava di parecchio sulle due laterali, era separata dal presbiterio, sopraelevato rispetto al pavimento, mediante una iconostasi sorretta da otto colonne, al centro della quale si ergeva un crocefisso ligneo di tipo giottesco, talvolta affiancato da una serie di piccole statue. Il presbiterio, semicircolare, ospitava l’altare maggiore, sopraelevato mediante alcuni gradini e protetto da una copertura marmorea sorretta da quattro colonnine. Esso era arricchito dalla presenza di alcune artistiche opere: sul lato settentrionale, accanto al ritratto del vescovo Antonio Grassi, era raffigurata la decollazione di San Giacomo, mentre su quello meridionale era collocata un’Adorazione dei Magi. Sopra lo stipite della porta principale era stato collocato l’organo, alloggiato in una elegante tribuna lignea, mentre il muro esterno della facciata era stato affrescato con un’immagine della Madonna. Il pavimento, originariamente realizzato in mattoni cotti posati a spina di pesce, venne in seguito lastricato con quadrelloni marmorei bianchi e rossi.
Agli inizi del XVIII secolo la chiesa era dotata di numerosi altari curati da altrettante associazioni laiche, scuole di mestieri (“fraglie”), confraternite di devozione. Si trattava degli altari di Sant’Egidio, posto sotto l’amministrazione dei botteri; di Sant’Antonio abate, protettore dei facchini; di San Giuseppe, pertinente ai falegnami ed ai muratori; di Santa Maria Maddalena, curato dalla Scuola del Pio Suffragio delle Anime del Purgatorio; di San Marco Evangelista, riservato alla fraglia dei calzolai; di San Giuliano, presieduto dai calafati; di Santa Lucia, gestito dall’omonima Confraternita; di San Bartolomeo, gestito dall’Associazione della Dottrina Cristiana. I
L’intero complesso non versava in buone condizioni di conservazione, e gli interventi di restauro realizzati fino nei primi decenni del Settecento avevano solo cercato di contenere il degrado che aveva interessato non solo il presbiterio ma pure le mura portanti. L’evento disastroso avvenuto nella notte tra il 24 ed il 25 novembre 1741, consistente nel crollo di parte dell’abside, fu l’ultimo che interessò l’antico edificio, tanto da indurre le autorità preposte a riedificarlo integralmente.

Il progetto dell’attuale edificio porta la firma del veneziano Pietro Pelli (Pelle), scelto tra i vari concorrenti del concorso indetto dalla Congregazione per la fabbrica del Duomo presieduto dal Podestà di Chioggia Bartolomeo Gradenigo. Il Pelli, “murer di Venezia”, presentò un modello corredato di disegni che rimase esposto per un mese, dal marzo all’aprile 1742, all’esame pubblico. Dieci anni dopo lo stesso capomastro, più che sessantenne, fece subentrare nel suo incarico il nipote Domenico, che diresse i lavori fino alla conclusione del Tempio. Le risorse finanziarie, sempre scadenti, attinte in prevalenza ai depositi testamentari dei “Tutori dei pupilli” e dal S.Monte di Pietà, condizionarono la realizzazione del nuovo progetto in tempi molto lunghi, indispensabili al reperimento dei fondi necessari. Inizialmente il governo della Repubblica accordò un prestito agevolato di 1200 ducati prelevabili dal fondo dei lasciti testamentari, gestiti dai due procuratori del duomo ad un tasso di interesse annuo pari al 4 per cento. Tale introito venne integrato mediante una delibera del Minor Consiglio cittadino, che devolveva un centinaio di ducati all’anno come saldo per un vecchio debito di 6000 ducati. Mentre procedevano i lavori all’esterno, la chiesa continuò ad essere officiata fino al 1749, quando per ragioni di incolumità fu deciso il trasferimento temporaneo delle funzioni parrocchiali nella chiesetta di San Martino, dove venne collocata un’immagine di San Giacomo quale segno tangibile della preservazione dell’originario titolo vicariale. Nel 1752, completata la copertura del tetto dall’abside fino al secondo pilastro, venne ripresa la vita liturgio-sacramentale, nonostante le grandi difficoltà provocate del lento proseguimento dei lavori. Nello stesso anno le tre cappelle risultavano ultimate e provviste dei rispettivi altari marmorei secondo il medesimo ordine con cui erano disposti nel precedente edificio. Dopo una pausa ventennale, i lavori vennero ripresi nel 1773, quando la Congregazione della Fabbrica poté contare su un discreto incremento di fondi disponibili grazie all’erogazione da parte del Comune della somma annua di 200 ducati, affrancati in seguito al trasferimento del Vescovo Morosini, legittimo beneficiario. Gli oneri di spesa, però, lievitati rispetto agli originari capitolati, vanificarono in parte i benefici di tale inaspettato introito. L’accelerazione dei lavori giunse grazie all’accensione di un mutuo di 2500 ducati, a cui si aggiunsero sostanziose donazioni di facoltose famiglie cittadine e di alcuni canonici. Il nuovo tempio fu finalmente benedetto l’11 dicembre 1788, e riconsacrato il 27 giugno 1790 dal Vescovo Giovanni Benedetto Maria Civran.

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